Plastica: ti mangio! Oppure ti saluto - Imperial Eco Watch

2022-12-20 13:52:25 By : Ms. Karen Xie

Potremmo chiamarlo il Pac-man delle bottigliette vuote.

È un enzima che dematerializza il polietilene tereftalato, la comune plastica PET, in pochi giorni, anche poche ore, per poi essere riutilizzata. A crearlo un team scientifico dell’università di Austin, in Texas. Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature (https://www.nature.com/articles/s41586-022-04599-z ), è un esempio di biologia sintetica, una disciplina nata negli anni 2000 che si basa sulla creazione in laboratorio di organismi viventi con tutto il loro bagaglio genetico e metabolico.

In questo caso, la “vita artificiale” battezzata FAST-PETasi, è in grado di depolimerizzare, ossia scomporre in parti più piccole, i monomeri, materiale di scarto come bottiglie, contenitori, alcune fibre e tessuti (il 12 % dei rifiuti globali), per poi convertirli in nuovi oggetti, in un processo circolare che può durare in alcuni casi meno di 24 ore.

Partiamo dal viaggio classico di una bottiglia di plastica in una struttura di riciclo: prima di tutto viene selezionata in base a dimensioni e tipologia, separata dai rifiuti non riciclabili, raggruppata fra gli scarti PET, lavata, frantumata e ridotta in fiocchi, che vengono poi scaldati, raffreddati e trasformati in palline con cui creare nuovi oggetti. Un iter lungo e laborioso che comporta anche un notevole consumo di energia.

Rispetto al processo di riciclo standard, l’enzima texano dovrebbe lavorare all’insegna della sostenibilità: la scomposizione avviene a livello molecolare, e a meno di 50 gradi Celsius, quindi con un minore dispendio di energia, rendendo più ecologico il riciclo industriale. Inoltre, la sostanza creata in laboratorio ha il vantaggio di essere “portatile”: la squadra di Austin sta infatti valutando come far lavorare gli enzimi direttamente sul campo, per ridimensionare le sconfinate discariche e risanare i siti inquinati, come le isole di plastica che fluttuano negli oceani. “…un enzima che possa funzionare nell’ambiente a temperatura ambiente.” Così ha classificato la sua scoperta Hal Alper, professore presso il Dipartimento di ingegneria chimica McKetta presso l’Università del Texas.

Nel frattempo un concorrente europeo è salito alla ribalta: sulla rivista Chemistry Europe si parla dell’omologo tedesco, l’enzima PHL7, creato nei laboratori dell’Università di Lipsia (https://chemistryeurope.onlinelibrary.wiley.com/action/doSearch?AllField=PHL7&SeriesKey=1864564x ), che ha scomposto un contenitore da frutta di plastica in meno di un giorno. Insomma, è una sfida a chi catalizza in minor tempo? Di fatto, da qualsiasi latitudine provengano, queste sostanze sintetiche sembra possano mantenere la qualità della plastica durante il processo, in vista di un riciclo circolare che riduce costi ed inquinamento.

“Life in plastic, it’s fantastic!” cantava un gruppo anni ‘90 parodiando uno stile di vita spensierato e superficiale. Lo stesso a cui ci ha abituato l’utilizzo quasi assoluto di questo materiale, per anni considerato friendly perché facile e comodo, in molti casi simpatico e gaio.

Ad inventare il primo materiale plastico è stato nel 1861 l’inglese Alexander Parkes: derivato dal nitrato di cellulosa, era utilizzato per scatole e manici. Agli albori del ‘900 viene inventata la bakelite, la prima sostanza a non contenere elementi presenti in natura, e si abbozza un’applicazione del materiale su scala industriale, mentre dagli anni ‘20 ai ‘40 si assiste ad un fermento creativo: nasce il nylon, utilizzato per le calze da donna come per i paracadute, e nel 1941 nasce la plastica PET. I ’50 sono gli anni della formica, per la produzione di arredi e stoviglie a basso prezzo, e nel 1954 Giulio Natta scopre il polipropilene isotattico, conosciuto dal pubblico con il marchio Moplen materiale che entra democraticamente in ogni casa sotto forma di giocattoli, soprammobili, e svariati oggetti di uso domestico (https://www.youtube.com/watch?v=PNCpF4K–Fs ).

La plastica si afferma nella prima metà del ventesimo secolo proprio in virtù della sua accessibilità, a cominciare da palle da biliardo e tasti per il pianoforte low-cost (oltre che ecologici, perché la plastica andava a sostituire l’avorio), e negli anni ’60 irrompe anche nel campo della moda e del design, realizzando i sogni di chi non poteva permettersi occhiali da sole in tartaruga o mobili di pregio. Tutto questo come antefatto dell’esplosione degli oggetti monouso, dalle bottiglie d’acqua alle lenti a contatto: plastica facile, comoda, ma purtroppo, ad altissimo impatto ambientale.

Lo sviluppo di una sensibilità ecologica degli ultimi decenni ha in parte smontato la celebrità della plastica. Quando viene bruciata rilascia nell’aria le diossine, sostanze segnalate come cancerogene. Anche la plastica abbandonata nelle discariche non è innocua: le sue particelle penetrano nel suolo e nell’acqua, e vengono assorbite dalle piante. E le sostanze degli imballaggi alimentari contaminano il cibo e le bevande che acquistiamo. Ci sono poi le microplastiche che viaggiano nel mare, che vengono ingoiate dai pesci che arrivano in negozio. In pratica, ogni giorno respiriamo, mangiamo e beviamo inconsapevolmente plastica: secondo l’analisi condotta dal WWF, in una settimana ingeriamo 5 grammi di plastica, l’equivalente di una carta di credito.

Senza contare poi le vittime della plastica nel regno animale: squali irreversibilmente deformati se rimangono incastrati a metà nelle reti; tartarughe, uccelli e mammiferi marini soffocati dall’ingestione di oggetti monouso o segnati da lesioni allo stomaco; barriera corallina frantumata dai rifiuti e sbiancata per calo delle difese immunitarie; gli stessi polpi e le alghe che abitano i coralli compromessi dall’assorbimento di microplastiche.

L’Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unea) ha approvato un documento che impegna gli stati membri a trovare entro il 2024 soluzioni contro questo tipo di inquinamento, in particolare la riduzione della produzione di oggetti in plastica nel mondo.

Earthday.org, con i suoi 192 paesi partner, sta portando avanti una campagna di sensibilizzazione per la riduzione della plastica a livello planetario, End Plastic Pollution: e c’è il calcolatore fai-da-te del proprio consumo annuale, per comprendere anche quale può essere il nostro ruolo nella battaglia contro il degrado (https://www.earthday.org/plastic-pollution-calculator-2/ ).

Come rinunciare alla plastica, e soprattutto agli usa-e-getta, complici della nostra vita casalinga e lavorativa?

Stiamo imparando progressivamente ad utilizzare oggetti in materiale biodegradabile, come bicchieri, piatti, bicchieri e posate compostabili, e a prendere confidenza con i multiuso come borracce personali, shopper di cotone, pannolini lavabili, fino ad arrivare alle coppette mestruali al posto degli assorbenti, e ai bicchieri per gli eco-aperitivi in piazza, in plastica sì ma riutilizzabile

Ma c’è uno zoccolo duro rappresentato dalla convivenza fra plastica e prodotti naturali: parliamo ad esempio di tovaglioli di carta, fazzoletti, dischetti struccanti, carta igienica, che vengono venduti in confezioni non ecologiche. Qualche azienda ha imboccato la via eco-friendly proponendo packaging biodegradabili: come alcuni farmaci sotto forma di compresse, disponibili in blister di carta compostabile, che sembrano garantire la stessa capacità sigillante della plastica. Ma le soluzioni non arrivano soltanto dagli uffici di marketing. Dagli alunni di una scuola elementare steineriana di Trento l’idea dell’ovetto Kinder green: sostituire il nucleo di plastica con una cialda commestibile e realizzare la sorpresa in materiale biodegradabile. E proprio Rudolf Steiner sosteneva che i giocattoli dovrebbero essere fabbricati solo con materiali naturali: il legno, ad esempio, si deve preferire alla plastica perché ha un profumo, ha una temperatura ed è piacevole al tatto.

Insomma, se l’enzima mangia-plastica può rendere più sostenibile il riciclo, questo non significa che possiamo continuare a produrla in grande quantità senza sensi di colpa. Solo una parte della plastica che arriva in discarica è riutilizzabile, il resto si disperde negli oceani, nelle aree verdi, o viene incenerito.

È il modello produttivo “dalla culla alla tomba” (cradle to grave) teorizzato da William McDonough e Michael Braungart nel libro “Cradle to cradle. Re-making the way we make things.” che si riferisce agli oggetti destinati ad essere buttati via dopo l’uso, e che trova il contraltare positivo nel “dalla culla alla culla”, dove ogni prodotto è destinato ad un riutilizzo infinito, perché realizzato con materiali riciclabili al 100%. (https://www.youtube.com/watch?v=fP8PRA-OajU&t=272s ).

Curiosa, iperattiva, in apparenza svagata. Parlando, posso interrompermi all’improvviso per l’avvistamento di un piccolo rapace in città o di un pesce che salta dalla superficie marina al tramonto, per la fragranza della menta calpestata o per il canto dell’assiolo all’ora di cena. Ma non sono certo una biologa. Mi piace assistere allo spettacolo multisensoriale della natura, e raccontarlo. Nata a Parma, naturalizzata romana, dopo anni di attività come addetta stampa per enti ed aziende differenti, tra organizzazione di conferenze e convegni, mostre ed esposizioni, promozione di prodotti e servizi, molte soddisfazioni e molto stress, la mia vita lavorativa ha subito anni fa un rallentamento grazie all’arrivo del terzo figlio, che ha introdotto nel mio orizzonte i concetti troppo trascurati di pausa e di calma. Li ho ritrovati e impiegati nella pratica di insegnamento di yoga per bambini, che svolgo da qualche anno, dove insegno ai piccoli e a me stessa il valore della concentrazione e della sana gestione delle emozioni, nell’ambito di sessioni in cui il mondo animale e vegetale sono protagonisti. Sono anche creatrice di laboratori per l’infanzia, realizzati in ludoteche, biblioteche comunali, e che propongo alle scuole, in cui giocano un ruolo fondamentale l’esperienza in natura e la cultura del rispetto dell’ambiente. Nel frattempo, rimane viva la passione per la scrittura e per il giornalismo. Ed il cinema.

È confortante leggere simili notizie, che rappresentano messaggi di speranza. Per fortuna la scienza va avanti, al contrario dei “grandi della terra”, che continuano a rimandare decisioni che sono vitali per il futuro dell’umanità. Vero, molto dipende dalle nostre scelte: anche la goccia fa parte del mare e, goccia a goccia…

Molto interessante e molto istruttivo, grazie. Speriamo che lo mettano in pratica prima possibile! Ma il più tocca a noi e alle nostre scelte di consumo.

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